L’ultima bitta

Il molo era una trave di cemento spinta in mare, una linea stabile in mezzo a una superficie che non lo sarebbe mai stata, per natura diversa: l’immobile e il moto. L’uomo del mare occupava, più o meno, sempre lo stesso punto, a pochi passi dall’ultima bitta, seduto su uno sgabello pieghevole dalla seduta scura, tesa come una cinghia. Ci stava sopra dritto, senza sprofondare, con la schiena che sembrava appoggiata a un muro invisibile. Gli stivali, fino a metà gamba, disegnavano due linee protese verso l’acqua, piantati con il tallone, come se avessero trovato un punto di riferimento nascosto. Portava una giacca cerata giallo shock, appiccicosa, chiusa con cura fino al collo. La barba, lunga ma ben regolata, seguiva la linea del viso. La pelle aveva il colore di chi sta all’aperto da molto tempo, ma non la stanchezza di chi aspetta per riempire le giornate. Nei suoi gesti non c’era passaggio di tempo da consumare: solo una sequenza di azioni esatte e distanziate quanto basta. Accanto alla gamba destra c’era una valigetta rigida color grigio opaco, con gli angoli rinforzati in metallo. Aperta, formava un piano che gli restava quasi in grembo.
La gente che passava lo salutava per abitudine. «Buon vento!», dicevano, come si dice a chi appartiene al mare. Lui alzava la mano senza voltarsi. Al bar del porto qualcuno sosteneva che aspettasse una nave che non sarebbe mai arrivata, altri che fosse gli occhi della Capitaneria di porto. C’era chi diceva che segnasse le maree o prendesse nota del movimento dei gabbiani, perfetti intercettori di pescherecci. Nessuno sapeva esattamente, ma ognuno aveva la sua versione, e tutte andavano bene perché non cambiavano nulla nella sua presenza.

Lui restava sempre uguale, sullo sgabello, alla stessa distanza dall’acqua, con lo stesso silenzio addosso. A volte le persone si fermavano a osservarlo da lontano per pochi secondi, poi si convincevano che fosse meglio non disturbarlo. Qualcuno lo indicava ai bambini: «Vedi? Quello è il marinaio del molo, sta controllando se il mare tossisce». Lui non smentiva e non confermava. Si limitava a un cenno e a un sorriso, come se bastasse a tenere in piedi la storia. Nessuno aveva mai chiesto cosa facesse davvero, e forse nemmeno lui avrebbe saputo spiegarlo in modo breve.
Quando il vento calava, o spingeva sempre nella stessa direzione, apriva la valigetta. Era importante “fare”, ma solo durante la quiete o il moto costante. Rimaneva immobile, lo sguardo fisso sul bordo interno, come se da lì dovesse nascere un segno che ancora esitava a mostrarsi. Non cercava nulla di preciso: lasciava soltanto che il tempo facesse il suo corso. Anche ciò che lo circondava sembrava fermarsi: il molo, l’acqua e perfino i rumori del porto. Il mare perdeva voce e diventava una superficie di ritorno. Poi richiudeva la valigetta senza fretta. La danza delle cose era finita.

Montava in bicicletta come se ogni partenza dovesse guadagnarsi la propria necessità. A volte risaliva la collina del porto, dove il vento tagliava più netto e la vista apriva la geometria dell’acqua; altre scendeva nei punti in cui il terreno scivolava sotto il livello del mare.

Quando rientrava a casa lasciava la bici appoggiata al grande faggio. Entrava, si toglieva la giacca, gli stivali e accendeva la fiamma sotto la caffettiera. Riapriva la valigetta sul tavolo con lo stesso gesto misurato del molo, ma questa volta la sequenza aveva un gesto in più. Inseriva il jack delle cuffie, le portava alle orecchie e premeva “signal track 1”, poi “signal track 2”, e così via. Non era musica, non era rumore: una sequenza precisa di toni, come se il mare avesse voce e parlasse a distanza di sicurezza.
Quel giorno la track 4 mostrò due toni in più. Non forti, ma riconoscibili, come una parola infilata di traverso e poi tolta in una frase regolare. Riascoltò più volte: ogni volta il tono tornava identico, nello stesso punto, con la stessa distanza dalle altre frequenze. Non era un errore, né un’eco, non un riflesso acustico o un’interferenza. Era un elemento nuovo, preciso, fissato nel suo posto come se fosse sempre stato previsto. I due toni si alternavano, uno grave e uno acuto, la forma base del linguaggio che conosceva meglio: zero e uno. Il segnale proseguiva con quella logica, completa e stabile. Le altre tracce, invece, non avevano variazioni: solo quella, la quarta, ripeteva la stessa coppia di toni. Una regolarità troppo esatta per essere casuale. Niente interpretazioni: serviva una chiave di lettura.

Lui non osservava il mare — non che non lo avesse mai fatto, anzi — ma ascoltava i segnali delle boe ancorate lungo la costa. Dodici unità disposte tra il porto e la diga esterna: per rientrare bisognava seguire un percorso preciso, perché la sabbia sotto cambiava forma e altezza ogni poche ore, una vera trappola. Solo la quarta boa, quella davanti alla diga foranea, aveva iniziato a inserire nel pacchetto una coppia di toni aggiuntiva, fissa nella parte riservata alla diagnostica. Allora, forse, non era l’uomo del mare. Con il tempo, alla sua figura la gente aveva cucito addosso ogni mestiere possibile, tranne la verità. La gente guarda, decide e passa oltre. Un uomo, una giacca gialla, una valigetta: quanto basta per sapere tutto, o almeno fingere di saperlo. Il resto non serve, si aggiusta da sé, come fanno le voci quando trovano spazio tra un’onda e l’altra.
La valigetta restava aperta sul tavolo, le cuffie ancora accese. I due toni della track 4 si rincorrevano come una respirazione artificiale: zero e uno, zero e uno, un moto e una pausa che sembravano studiarsi. Lui li conosceva da sempre, ma solo allora sentì che avevano corpo. Lo zero era tondo, pacato, rotolante, un suono che girava su sé stesso prima di svanire. L’uno invece tagliava, spingeva in avanti, come se volesse aprire una fessura nell’aria. Due nature incompatibili, eppure necessarie: l’una conteneva e nello stesso tempo respingeva l’altra. Rimase a lungo senza muoversi. Ogni ciclo ripeteva la stessa forma, ma il confine fra suono e pensiero cominciava a sfumare. Più ascoltava, più capiva che quel ritmo non descriveva il mare: lo imitava. Il mare stesso era una sequenza di zero e uno, di onde che salgono e scendono, di quiete e impatto, e lui ne era parte: un bit fra miliardi di altri bit. Sul display del registratore una linea luminosa tracciava impulsi sempre più regolari: la coesistenza di due forze che si alternavano. Ogni tanto avrebbe voluto spegnere, ma la mano si fermava a metà dell’atto, come se il gesto avesse paura di interrompere qualcosa di vitale. Gli sembrava di sentire la pelle pulsare alla stessa frequenza, un ronzio dentro le ossa: la prova che il corpo umano non è mai neutro, ma un sistema in costante taratura. Il mare fuori cominciò a sollevarsi: onde brevi, pulite. La finestra tremava, e in quel tremito il suono nelle cuffie si deformò leggermente, poi tornò preciso, come se il mondo stesse cercando di restare in fase con la sua registrazione. Si mise gli stivali, prese la giacca, la valigetta e scese di nuovo al molo. Il vento aveva cambiato direzione, ma il punto dove si sedeva era lo stesso. Posò la valigetta e questa volta collegò degli speaker, poi premette play. Il mare, lui e la traccia respiravano insieme. Per un istante non seppe più chi stesse ascoltando chi. Lo zero e l’uno continuavano, e in quel ritmo si riconobbe: il lato che misura e il lato che risponde, la parte buona e quella cattiva. La dualità perfetta del segnale, dell’uomo, del mondo. La track 4 restò a “girare” nel silenzio: un ciclo chiuso e infinito, come il mare quando respira in sé stesso.