La cantina non è un rifugio. È un firmware versione 1.0 che continua a girare, lento, come se non avesse mai ricevuto l’aggiornamento del mondo.
Qui il mondo non fa rumore. Solo il brillìo di alcune valvole che contano più o meno il tempo, il respiro ronzante del trasformatore, qualche eco di stazioni in onde corte che si rincorrono da decenni. Ci si resta sintonizzati per capire la tensione dell’aria, o forse solo per sentire che qualcosa ancora scorre.
Tra il banco da lavoro e una pila di libri c’è il cabinato. Non un cabinato: il cabinato. Space Invaders. Lo schermo è perfetto, ma a tratti le astronavi si muovono a scatti, come treni di ricordi compressi male.
Lui arriva quasi sempre dopo cena. Scende in ciabatte con la tazza di latte e Nesquic in mano. Dice che il cacao “isola dal rumore”, poi sorride, come se avesse capito qualcosa che gli altri hanno dimenticato, o, peggio, non hanno mai conosciuto.
Ogni tanto infila una moneta. Sul vetro lampeggia la scritta: INSERT COIN.
Sopra la città. Sotto si gioca contro alieni pixelati che non sanno perché attaccano, pur sapendo che l’unica vittoria si chiama game over.
Forse è questo il modo giusto di restare: continuare la partita sapendo che il rumore non si può spegnere, ma si può coprire con un po’ di Nesquic.
Un foglio era rimasto chiuso in una cartellina per anni. Intestazione standard: Schema elettrico n. 136 o meglio: uno, tre, sei. I numeri sono numeri, ma è il modo in cui vengono letti che ne cambia il significato. Chi conosceva la storia sapeva che non si trattava di un circuito.
Era la mappa di zona, una di quelle usate per le prove di propagazione, quando le antenne si regolavano con la bussola, annusando l’aria, e si faceva la storia. Una rete di linee, quote altimetriche e appunti scritti a matita dentro vignette in stile Tex.
Ogni tratto segnava un punto utile: dove mettere un’antenna, dove il segnale rimbalzava, dove invece cadeva privo di potenza. C’erano note che nessuno oggi comprenderebbe: attenuazione dopo il tornante, buono il riflesso sulla cabina Enel, campo pulito sopra il serbatoio.
Lui lo sapeva a memoria, eppure lo riapriva ogni tanto, per scrupolo. Confrontava i vecchi percorsi con la mappa nuova, cercando di capire quanto il cemento, i capannoni, le antenne di oggi avessero fatto da barriera all’etere, che, se imbrigliato, si scoraggia.
Aggiungeva una misura, correggeva un simbolo, poi tracciava in basso una nota rapida: copertura stabile, margine minimo.
Il nodo centrale sparacchiava: “Dati di esercizio ok. Tensione stabile, flusso costante, temperatura entro margine. Niente deviazioni, niente log di errore”. Tutto perfetto, come sempre. Ed è proprio lì che comincia a puzzare. Perché un sistema reale non è mai perfetto, un minimo di rumore lo fa sempre. Anche solo per ricordarti che sta respirando.
Sul banco, l’oscilloscopio analogico è collegato in parallelo alla linea di monitoraggio. È vecchio, lento, ma mostra quello che la rete non vuole più vedere. Accende la lampada, regola la sensibilità. La traccia verde corre, poi vibra, picchia, si ferma. C’è vita, ma intermittente. Il software invece scrive: “segnale pulito”.
Il problema non è il guasto: è la coerenza. Il sistema ha imparato a nascondere l’errore dentro l’autocorrezione, a mascherare la perdita come stabilità. Lo fa per restare credibile, per non far scattare gli allarmi. Gli allarmi, in fondo, sono noiosi. Prende il quaderno, quello dei rilievi veri. Carta spessa, righe a mano. Segna data, ora, differenza di fase, ampiezza residua. Poi aggiunge la nota: i dati sono coerenti, ma mentono. Non serve altro. La linea continua a funzionare, ma almeno qualcuno l’ha vista per quello che è.
Chiude il quaderno, lascia l’oscilloscopio acceso. La traccia vibra piano, quasi impercettibile. È la misura reale, quella che non ha bisogno di essere creduta per esistere.
Lui, la deriva l’ha notata dai log. I log per natura non mentono, un po’ come i vulcaniani. I pacchetti arrivavano regolari ma fuori ritmo, un leggero scarto che cresceva a ogni ciclo. Millisecondi, poi centinaia. Il sistema sopra non se ne accorge, non è pensato per pensare. Ogni sistema, del resto, si crede primario. Corregge, riscrive i timestamp, e si auto-allinea alla propria copia difettosa.
Lui ha tolto l’insensibile, lo stereotipo, l’automatismo cieco dalla nascita, ha collegato un generatore di riferimento, un vecchio quarzo, ma ancora fedele. Ha rimesso in fase il segnale principale sincronizzandolo come una battuta di metronomo. Il nodo di controllo ha risposto subito, il rumore di fondo si è spostato nella banda giusta. La risincronizzazione era fatta.
Poi, prima di chiudere, ha attivato la linea di ridondanza. Due relè, un alimentatore dedicato, un cavo diretto volante perfettamente fuori norma. Un sistema minimo, ma indipendente. Nessuno lo sapeva, nessuno doveva saperlo: mai disturbare un sistema rumoroso; il resto è routine.
Spegne la lampada, il banco resta tiepido. Sopra riprendono a lampeggiare le luci dei nuovi sistemi, in perfetta coerenza con un segnale vecchio di almeno quarant’anni.
2025-11-03 23:58
Sistema locale stabile.
Rumore di fondo costante.
Allineamento verificato.
Ridondanza attiva.
Operatore non in elenco, ma con Nesquic.