La triade imbarazzante

La stazione è ancora lì, su una cresta esposta dove il vento cambia direzione come e quando gli pare. È un oggetto sobrio: un palo, un piccolo box stagno, un pannello inclinato, un’antenna che sembra una mano alzata: «Presente!». Di giorno la luce la fa sembrare nuova, di notte sparisce, inghiottita dal buio. Era parte di una rete più grande, un progetto di quando si credeva ancora che ogni cima dovesse parlare. Poi sono arrivati i satelliti, le app, le nuove logiche, e qualcuno l’ha segnata in rosso su un foglio: “da dismettere”. Ma nessuno è mai tornato a smontarla. Allora accade che, se non puoi usarla nemmeno come uno stendipanni, a cosa serve? È rimasta lì, sola, con i suoi bulloni serrati e la memoria piena di dati vecchi di anni. Quando il sole è al suo massimo, il modulo interno si ridesta, la tensione va di picco e avvia la sequenza. Il sensore di pressione si risveglia per primo, poi la sonda di temperatura, poi il trasmettitore. Un pacchetto di otto righe, poche cifre, e il segnale parte: un impulso corto, tagliente, che risale la valle e si dissolve oltre la dorsale. Un impulso semplice, poche parole ben dette, come un buon ponte radio sa fare: sempre alla stessa ora e con lo stesso formato. Non è più un messaggio, è un gesto. Il mondo di sotto non lo riceve più, ma lo capta quel mondo dei vecchi ricevitori e di chi ancora li tiene in funzione.

Chi la mise lì aveva scritto sull’ultima pagina del registro: “Installata, funzionante, soggetta a prove periodiche.” Prove che non ci sono mai state. Eppure, ogni giorno, l’invio si ripete perfetto, e in fondo alla valle un radioamatore la intercetta non per caso ma per scelta. Tiene la radio accesa un po’ per abitudine, un poco per compagnia e soprattutto per curiosità, e all’invio giornaliero annota l’ora su un foglio del tutto inutile. Poi resta ad ascoltare il fruscio: gli piace pensare che quella stazione non trasmetta per lavoro, ma per dignità, e che continui a farlo perché non sa fare altro, o perché ha deciso che, finché c’è energia, vale la pena dire: «Sono ancora qui». L’inverno dura a lungo da quelle parti e la neve quasi la seppellisce, mentre il vento la scopre. Ogni volta che arriva un po’ di luce, il respiro elettrico riparte. Una luce minuscola si accende per qualche secondo, poi scompare, come è giusto che sia.

Una centrale non dorme, non ne ha il diritto e nemmeno la capacità. È un grande corpo di ferro e cemento che respira aria condizionata da vent’anni. I corridoi sono stretti, senza finestre, illuminati da luci che non conoscono differenze tra giorno e notte. Negli slot le spie pulsano a intervalli regolari, esattamente come farebbe un battito artificiale. Il silenzio, qui, è un errore di sistema: infatti, il protocollo stabilisce che l’assenza di segnale equivale a un guasto. Così, quando tutto funziona davvero, la centrale s’inventa un problema: un allarme di servizio, un piccolo errore fittizio, qualcosa da segnalare per non tacere. Ogni dieci secondi un bip, ogni minuto una voce nei log: è questo il suo modo di sentirsi viva, e chi è di turno lo sa. Arriva, passa il badge, sente il soffio costante delle ventole, vede un solo lampeggio rosso che insiste come un punto di domanda. Non fa nulla: non è bugia né svogliatezza, è rispetto. Meglio una macchina che parla troppo che una che tace. E mentre la notte s’infittisce, dentro la centrale non cambia nulla: la temperatura resta la stessa, il rumore pure. Il tecnico prende il thermos, beve piano e ogni tanto si guarda riflesso nel vetro del quadro di controllo, come se volesse capire chi dei due stia effettivamente sorvegliando l’altro. Prima di uscire scrive sul registro digitale: «Stato normale.» Poi chiude la porta. Dietro di lui, la centrale continua a respirare nel suo linguaggio di spie e frequenze, un animale addestrato a simulare la paura per non morire di silenzio.

Le due reti non dovevano incontrarsi. Una standard, di quelle in fibra che trasportano rumore a banda larga, e l’altra sperimentale, lenta e metodica. Due universi separati da protocolli diversi, firewall e abitudini. Poi, una notte, in un tratto di banda dimenticata, hanno iniziato a parlarsi. All’inizio sembravano disturbi: pacchetti duplicati, checksum fuori scala, ritardi minimi. Il sistema di monitoraggio li segnalava come errori di propagazione e li cancellava subito dopo, ma il pattern continuava a ripetersi. Un log che non si chiude mai attira lo sguardo dei nerd come un filo che vibra sotto il naso. Dopo aver isolato il flusso, lo osservò in silenzio contemplativo: non c’era nulla da capire, solo un ritmo che cresceva e mutava, come se i due sistemi si stessero regolando a vicenda. Nei giorni successivi quel lembo di banda si stabilizzò, segno che le due reti probabilmente trovarono un compromesso, o una lingua comune che sicuramente non era documentata da nessuna parte, e altrettanto sicuramente priva di sintassi nota. Si scambiavano pacchetti naif o kitsch, coerenti tra loro, in un dialogo senza spettatori. Il nerd tentò di decodificarlo, ma ogni volta che era a un passo dalla verità la struttura cambiava, esattamente come piace cambiare alle scale di Hogwarts: non per difesa, ma per evoluzione. Alla fine soprassedette, spense i filtri, disattivò i controlli automatici e si mise a osservare il flusso scorrere, continuo, calmo e perfetto. Dopo qualche minuto, non comparvero più nei log incerti come errori di propagazione o altro. Un’unica voce, costante, come un battito cardiaco regolare: «Comunicazione stabilita. Protocollo ignoto.» Così chiuse la finestra del terminale. Le due reti continuarono a parlarsi e, da quel momento, nessuno le separò.

Rapporto interno – Sezione Reti Residuali / Protocollo 3R

Tre sistemi. Il primo continua a trasmettere perché nessuno ha mai interrotto l’alimentazione. Il secondo lavora perché il silenzio, per lui, è errore. Il terzo comunica con ciò che non dovrebbe, ma lo fa con coerenza. Non c’è guasto, ma nemmeno controllo. Tre comportamenti corretti fuori contesto: funzionano, ma non obbediscono. Annotazione non ufficiale: «Una triade imbarazzante.» Imbarazzante perché ogni tentativo di spegnimento richiederebbe una spiegazione, e nessuno, ormai, ha voglia di darla.